Intervento in Direzione nazionale (6 Ottobre 22)
Condivido con voi il video del mio intervento in Direzione nazionale questa mattina, assieme al testo integrale che ho dovuto sintetizzare per ragioni di tempo.
Prendo la parola con il cuore pieno di amarezza, ma con molta determinazione.
Abbiamo subito una sconfitta pesante. Non basta dire che siamo il secondo partito, o il primo partito di opposizione; non basta dire che la destra non è maggioranza assoluta nel paese. Non basta.
Il risultato delle elezioni ci parla di errori politici e strategici e di un profondo logoramento del nostro partito e di tutta la nostra comunità.
Errori politici: non abbiamo compreso, non da ora ma da molto tempo, lo sconvolgimento provocato nella coscienza e nella vita degli italiani dal dramma della pandemia e, adesso, dalla guerra. Tutto questo ha acuito la sensazione di solitudine e di incertezza verso il futuro, peggiorata dalla crisi economica e dall’aumento dell’inflazione che colpisce le famiglie. Non abbiamo così compreso, e non abbiamo ascoltato, l’ansia di chi non arriva alla fine del mese, di chi vive di lavoro precario, di chi non riesce a farsi carico della propria famiglia. Siamo stati percepiti come una forza politica che è fuori dalla realtà del paese.
Errori strategici: non abbiamo fatto i conti fino in fondo con la legge elettorale, e la scelta di polarizzare lo scontro tra noi e Meloni, chiudendoci in uno splendido isolamento, non ha pagato. Anzi, ci ha punito.
Logoramento del Partito: come tante e tanti di voi, ho fatto campagna elettorale, l’ho fatta in un collegio difficile. Ho incontrato militanti, sono stata sostenuta con immensa generosità dai circoli e dai nostri Giovani democratici. Una generosità eroica, ma troppo spesso rassegnata; una generosità piena di lealtà e di senso di responsabilità, ma senza sorrisi. Ma non è colpa loro, è colpa nostra.
In questi giorni ho seguito con attenzione il dibattito interno. Lo voglio dire con sincerità e franchezza: tanti, troppi di noi, non hanno la credibilità per intestarsi un percorso di rinnovamento. Se volete, mi ci metto anche io: non si tratta delle nostre teste, della nostra capacità di leggere una fase. Si tratta delle nostre responsabilità come classe dirigente. Dobbiamo farcene carico, e capire che adesso ci viene chiesto di fare un passo indietro. Non parlo di rottamazione: l’abbiamo subita, ci ha fatto molto male. Parlo di un passaggio di testimone: tra generazioni e, perché no, anche tra generi. La composizione dei nostri eletti e delle nostre elette parla chiaro: pochissimi giovani e, ancora una volta, pochissime donne. Ancora una volta, la rappresentanza femminile è rimasta vittima del gioco delle pluricandidature; ancora una volta, abbiamo scontato – lo dico soprattutto alle mie compagne – l’incapacità di tessere alleanze tra donne per resistere e proporre una alternativa.
Qual è la strada?
Si comincia dalla nostra struttura, rigida e chiusa a riccio. Da un Partito che mortifica le competenze – se non sono ben radicate in assetti di corrente – e che troppo spesso preferisce la fedeltà alla lealtà. Si comincia, soprattutto, dalla frustrazione della nostra comunità, ormai logorata da anni di percorsi pilotati, di scelte già prese, di fatica non ripagata. Durante la mia campagna elettorale, ho ascoltato dalla voce di una mia sostenitrice una frase che mi è rimasta dentro: parlava di un tempo in cui ogni persona, dentro il Partito, si sentiva parte di una grande impresa comune. Oggi non è più così: ci si sente al più ingranaggio di un corpo burocratico, dominato da gruppi di potere e cordate. Oggi, chiunque si affaccia dall’esterno alle porte del Partito, si deve confrontare con un sistema chiuso, dove i giochi sono sempre già fatti.
Come sapete, ho preannunciato il mio voto contrario alla proposta di percorso congressuale delineata dal Segretario. L’ho fatto per una questione di metodo. Vedo in questo percorso, e soprattutto nel modo in cui è nato, l’ennesima conferma di una volontà di conservazione dell’esistente, di prendere tempo per favorire riposizionamenti e operazioni di apparato. Forse, lo dico con umiltà al segretario, sarebbe stato meglio ascoltare prima gli organi del partito – non i capicorrente – e solo dopo proporre una sintesi: un tempo si faceva così. Questo non vuol dire, ovviamente, che se la direzione approverà la proposta non darò il mio contributo, con lealtà e determinazione, come ho sempre fatto. Ma, per esperienza, non riesco ad avere fiducia in proclami di apertura che si rifanno ad esperienze, come quella delle Agorà, che anziché avvicinarci alla nostra comunità – e tra di noi – hanno ottenuto l’effetto contrario. Guardiamoci in faccia, diciamocelo: una piattaforma funzionale forse, ma troppo complessa. E troppo spesso una falsa parità di armi, con Agorà più spinte di altre. Ma soprattutto, la totale assenza di una sintesi vera, con un programma scritto a Roma, da pochi: e l’estrema difficoltà di veicolare contenuti, anche se legittimati dal percorso delle Agorà. Allo stesso modo, non riesco a credere – in questo momento – a un percorso che si ispira a uno statuto che purtroppo è invecchiato prima ancora di poter essere applicato e che rende sostanzialmente impossibile una vera apertura alla partecipazione nella costruzione delle candidature e delle piattaforme.
Tutto questo è frustrante all’interno, e respingente all’esterno.
E’ frustrante e respingente l’immagine di un partito senza un’identità definita, e che per questo non riesce a prendere posizioni univoche e chiare. Che senso ha, ad esempio, mettere nel programma il matrimonio egualitario se quelle parole sulla bocca del Segretario in campagna elettorale non le abbiamo mai sentite? Che senso ha impegnare per anni le associazioni in un tavolo di confronto, mettendoci la faccia, se poi i risultati di quel lavoro vengono ignorati? Che senso ha fare una sacrosanta battaglia culturale contro la flat tax senza riuscire a spiegare in modo efficace una controproposta credibile di riduzione delle tasse – anche per lavoratori autonomi e partite IVA – e di abbattimento del cuneo fiscale: questo ci ha allontanato sia dagli imprenditori che dai lavoratori. E anche sul tema del lavoro, del precariato, della povertà abbiamo balbettato senza far comprendere il nostro posizionamento sulla giustizia sociale, senza trasmettere passione per l’eguaglianza: questo, oggettivamente, ha aperto un’autostrada per M5s.
Non è frustrante, questo, non è respingente?
Di questa frustrazione, prima di ogni altra cosa, dobbiamo farci carico, rimettendo al centro la nostra comunità. Per davvero, liberandola dai condizionamenti di corrente. La parola deve tornare a essere libera, senza paura di perdere posti in fila o di subire chissà quali conseguenze. Non dobbiamo avere paura del conflitto: solo attraversando il conflitto riusciremo a capire chi siamo veramente. Solo così rimetteremo in circolo pensiero e passione. Promuoviamo allora assemblee aperte e libere – lo ripeto, libere! – facciamolo nei circoli e nelle federazioni: è quello il nostro cuore. Un cuore da riparare, con una riflessione profonda sulla forma partito, sul finanziamento, sulle risorse; ma un cuore pieno di competenze, di generosità, di idee. Facciamo parlare loro, restiamo per un attimo in silenzio. Ascoltiamoli.
Al tempo stesso, questa nostra discussione dovrà essere una grande discussione sull’Italia: se non sappiamo più parlare al paese è perché questo paese non lo capiamo più, forse perché lo abbiamo frequentato troppo poco, occupati come eravamo a governarlo. Adesso non è più il tempo di governare: cogliamo questa occasione per capire come tornare a capire la società italiana per trasformarla. C’è un’opposizione da costruire, non solo in Parlamento ma nel paese, di fronte a una destra che prepara già un disegno di egemonia culturale reazionario e regressivo. La nostra funzione storica, adesso, è quella di raccogliere questa sfida, comprenderla in profondità, reagire. Non la sapremo svolgere, se non decideremo chi vogliamo essere, e come vogliamo esserlo